Il 25 gennaio un giovane ricercatore è scomparso al Cairo. Si chiamava Giulio Regeni ed era di Fiumicello, un paese della Bassa friulana.
Regeni scriveva per il Manifesto, raccontava l’Egitto, si occupava della società di un paese che, come gran parte dell’Africa e del Vicino Oriente, è una pentola a pressione pronta a esplodere. Un paese dove il concetto di “democrazia” e di “diritto” sono certamente distanti dai nostri. Un paese che, come tanti altri, è pieno di povertà, prevaricazioni, inguistizie.
Lo hanno trovato morto, ai lati di un’autostrada. Le autorità di polizia si sono affrettate a dire che è morto in seguito a un incidente stradale. Peccato che Regeni avesse preso la metropolitana cittadina da tutt’altra parte, che il suo corpo fosse per metà nudo e che la sua pelle fosse coperta di ferite, ecchimosi e bruciature. Così ci dicono oggi i giornali, dopo che il governo egiziano, messo alle strette, ha rettificato le dichiarazioni iniziali dei funzionari della polizia locale. Sembra difficile sostenere persino la tesi di una rapina particolarmente cruenta. Ciò che trapela fa parlare di rapimento, torture, assassinio.
Sembra una storia già udita, non so quante volte. Una storia tragica che ricorda i racconti dei miei nonni sull’epoca dell’occupazione nazista, oppure le tante storie di coloro che hanno tentato di risolvere inguistizie sociali in tutto il mondo.
Aprire gli occhi e tentare di raccontare la realtà agli altri è pericoloso. Ma tenerli chiusi è certamente letale, ci sono tanti modi di morire e spegnere il cervello è forse peggiore di una morte violenta e delle torture.
Fino a poco fa non sapevo nemmeno chi fosse Giulio Regeni, un mio connazionale che, come tanti altri, lavorava e viveva all’estero, scriveva per un giornale che non leggo e non apprezzo neppure, ma oggi so chi fosse e cosa stava cercando di fare. Posso dire che non è morto, chi lo ha assassinato ha gettato benzina sul fuoco, un fuoco di giustizia e libertà.